Fa ciock.

 

Gli angeli esistono e sono quelle voci che, d’un tratto, ti esortano a fare quello che ami fare, a ritrovarti.

Spesso ci perdiamo nel frastuono della bieca quotidianità, negli automatismi cui siamo talmente abituati da non ragionare più su quel che ci fanno perdere, su quel che facciamo senza volerlo fare, su quel che potremmo fare senza saperlo.

 

Le finestre, quelle che mi piace tanto osservare: scovarne alcune che sono un’orchestra perfetta, altre che sono così diverse, nella loro essere apparentemente uguali, e a cui quando scatti stai dicendo: siete bellissime.

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Fare caso a vecchi sportelli arrugginiti entro i quali, un tempo, passavano i cavi della corrente, che si dovevano nascondere perché erano antiestetici e si viveva convinti che la bellezza avrebbe salvato il mondo; quando poi, quel mondo, lo abbiamo sporcato con immondizia che contorna alcune strade.

 

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Ma non fa niente, perché rimangono magiche; anche quelle con i panni stesi, che non sono bei panni, non sono tovaglie di lino, ma il bucato che racconta di una famiglia che la domenica si prende cura di sé.

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Vedere il tepore proprio di un paesino, nel cuore della Capitale.

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Sorridere della fila fuori dal panificio Boccione, cui la curiosità ti spinge ad entrare, a curiosare, a respirare odori che sanno di casa, di buono e di impasti rimasti attaccati ai recipienti, a comprare, a sentire chi ti saluta con Shalom.

DSC00670.jpgRicevere un pandoro o dei biscotti natalizi, perché è Natale. Anche prima che inizi dicembre, può essere già Natale: questo indica la nascita, la rinascita, di cui spesso si ha la necessità anche se non la si avverte.

Ci sono momenti che non sai perché sono quelli e non altri, in cui smetti di sfogliare il libro di foto di Doisneau o Les Nijinsky ed esci fuori, perché se vuoi un posto nel mondo, le foto le devi fare tu: frammenti di vita, furti di esistenza che ti spettano. Anche a costo di lasciare che ti feriscano, o di mettere sul bancone tutto quello che hai, perché puoi vincere o puoi perdere, ma quella è la vita, non è il destino. Il destino è la vigliaccheria del non darsi spiegazioni, del tacere quando si ha da parlare.

Ieri pomeriggio, da Piazza delle Cinque Lune a Via del Portico d’Ottavia e al contrario nel ritorno, ho detto: Caro destino, ti sbagli, ci sono sogni più grandi e ambizioni più alte ed emozioni più forti di ciò che mi vorresti far credere, e Natale esiste anche il 27 novembre; me ne ero soltanto dimenticata.

 

Nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili.

dsc00602(Praga, Malastrana).

Viviamo nell’incapacità di scrollarci di dosso quel che è crollato, quel che ci ha tagliato la pelle lasciando abrasioni senza, tuttavia, andare via.
Siamo traiettoria di gesti, parole, silenzi, speranze e illusioni, rispetto ai quali tutti non riusciamo a fare opera di discernimento, stabilendo quel che può rimanere sulla via che siamo e quel che non deve avere più spazio.

C’era un tetto a Praga, sotto la mia finestra, che dava su un bel viale alberato, colorato di foglie gialle e arancio e disseminato di panchine bianche. Quello che mi ha colpito, però, è stato il coro di tegole arrivate a incastrarsi sotto la grondaia, in un’architettura scomposta, disordinata ma, al contempo, perfetta.
E, così, ho guardato da dove fossero cadute, dove fossero gli spazi (ora vuoti) in cui prima erano adagiate.
Non c’erano; tutte le caselline di questo tetto erano coperte. E loro stavano lì.

Mi sono sembrate sole. E ho pensato che, effettivamente, se nessuno si era preso la briga di sporgersi, afferrarle e ri-piazzarle da dove si erano scostate, scollate e cadute, non sarebbe potuto essere diversamente. Insomma, senza l’altrui gesto, non si sarebbero mai potute riprendere il loro posto: e quindi eccole lì, in bilico, fragili. Non essenziali, ma un in più.

Gli esseri umani non sono tegole, però. Succede che quel che si scosta dalla vita di un altro, quello che violentemente se ne va, non richiede sempre e solo di essere ri-afferrato e riposizionato lì dove era. Perché questo è violenza. La stessa violenza che, però, diventa necessaria quando quel che è crollato va tirato via, per lasciare spazio ad altro, a sassolini che se tiro giù dal tetto devono potersi incastrare nel tubo della grondaia e fare ‘clonk‘, senza essere ostacolati da queste tegole.

Non so che ne farei di queste tegole. Forse nulla, ma non riuscirei a buttarle; al più, ad abbandonarle.
In un film di Virzì (“La pazza gioia”), alla domanda “Ma dove sta la felicità?“, si risponde “Nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili“.
Così, se oggi mi chiedessero “Ma dove sta la tristezza?”, risponderei: “Nelle tegole in più su un tetto riempito”.