Sensi di vuoto che acquistano una ragione.

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Tornare a riprendere, me; a rispondere, a me.
Tornare a soffrire o a stupirmi: a riscoprire l’inizio dalla fine.

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Cara Cina, come ti ho scritto un po’ di post fa, tu mi hai fatto capire quel che volevo, avrei voluto e non vorrei; ora gradirei parlarne, perché tu custodisci

in mezzo a quell’aria che si produce con l’olio di sesamo in cui sfrigola il riso,
tra il rumore delle bacchette sulla ceramica delle ciotole,
nel suono di 100 cinesi che bevono la zuppa di miso,
tra i visi nascosti da mille smartphone,
nel caldo afoso senza che il sole si veda,
nel caos di chi corre, cammina o pedala,

nella noia,
nella mia incapacità di sfruttarla,
nella solitudine tra miliardi di persone,
nella scrittura con flussi di coscienza,
nella riproduzione di Spotify che era casuale ma nemmeno troppo,
nel caos,
nella calma troppo piatta,
nello stupore,

una parte di me, quella che non riesce a fare la spesa perché non capisce e non sa, quella che sbuffa ma si stupisce, quella che va in giro da sola per la città, quella che legge e non vuole guardare l’orologio perché ha paura di smettere, quella che sente le mancanze, quella che realizza che certe persone sono pilastri e altri passeggeri, che le prime vanno preservate, le seconde accompagnate all’uscita; tutto questo me lo hai, umanamente, magari con rimorsi, o con sicurezza e aggressività, e a volte con qualche lacrima o tante risate.
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Tenuta prigioniera, mi hai liberato quando con le lacrime, ho capito che il dolore è andato via dal cuore e che per la mente, servono tante risate sbiancanti, come il riso puro che mi hai insegnato ad apprezzare.

Ora che sai di avere questa parte di me, se non dovessi tornare a ricongiungermene, custodiscila: ma non in una teca. Portami in giro, fammi sognare.

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