Riflettendo per riflettersi

Non innamorarti di una donna che legge,

di una donna che sente troppo,

di una donna che scrive…

Non innamorarti di una donna colta, maga, delirante, pazza.

Non innamorarti di una donna che pensa,

che sa di sapere e che inoltre è capace di volare,

di una donna che ha fede in se stessa.

Non innamorarti di una donna che ride

o piange,

che sa trasformare il suo spirito in carne e, ancor di più,

di una donna che ama la poesia (sono loro le più pericolose),

o di una donna capace di restare mezz’ora davanti a un quadro o che non sa vivere senza la musica.

Non innamorarti di una donna intensa, ludica,

lucida, ribelle, irriverente.

Che non ti capiti mai di innamorarti di una donna così.

Perché quando ti innamori di una donna del genere,

che rimanga con te oppure no, che ti ami o no,

da una donna così, non si torna indietro.

Mai.

(Martha Rivera Garrido, Non innamorarti di una donna che legge)

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Innamorati, invece, di quella parte di te che è così.

Innamorati del te stesso cui piace viaggiare, e non parlo solo del navigare su Skyscanner una a settimana e pianificare il pacchetto con il sorriso che compare al ‘pin’ dell’email di conferma che ti arriva con il summary del tuo viaggio, ma parlo anche e soprattutto del percorre mete restando fermi.

Di desiderare l’inverno d’estate, e la primavera quando fuori piove; di immaginarti in un paese tropicale, naufrago in un’isola che c’è o non c’è, ma che in quell’istante è tua: e tu sei lì, sei in grado di sentire il sapore dolce del latte di cocco che smorzi con un foglia di platano essicata quando magari, invece, sei seduto sul tuo divano senza niente davanti e la neve che batte alla finestra, dicendoti “continua”.

Innamorati del te stesso cui piace scattare foto senza alcuna ambizione, se non quella di intrappolare il tempo in un formato polaroid, iniziando a pregustare cosa scriverai in quello spazio bianco che c’è sotto, se scriverai qualcosa o se vorrai che, riguardandola più in là nel tempo, sia la tua mente a riportarti lì, dove e quando hai vissuto quello che ora è un quadrato su carta fotografica.

Innamorati di quella parte di te che non capisci, che detesti: innamoratene per levigarla, per renderla malleabile in un mondo in cui tutto c’è ma in cui sei tu a capire quel che merita o no. Innamorati del tempo perso a contare quante foglie color amaranto sono cadute davanti alla panchina su cui eri seduto, del tempo perso a giocare dove mettere i piedi in un pavimento con mattonelle quadrate o esagonali, del tempo perso a riniziare a contarle perché non erano regolari e non ti consentivano una sequenza perfetta.

Perché la sequenza perfetta non c’è.

Perché ogni parte di te, di cui ti sarai innamorato, sfugge alla logica, al raziocinio ed è pura emozione. Sarebbe facile innamorarsi sulla base dei conti, del calcolo, della razionalità: mettere tutto a sistema, calcolare nel dettaglio ogni equazione per poi mettere la vita in un foglio excel. Sarebbe facile ma sarebbe atroce. Nell’esatto momento in cui lo fai, avrai rotto ogni imperfezione che esiste nella realtà, ogni dubbio che ti assale sul futuro, per sfuggirne.

Ma la fuga non è il viaggio, la fuga è l’immobilismo. E’ guardare la vita con questa posa scultorea, aspettando che quel che vogliamo prenda forma, mentre noi siamo fermi.

DSC00218.jpg(Rabarama, Corso Italia, Cortina d’Ampezzo)

 

Over.

Devo solo arrivare alla quinta elementare
per diventare grande grande come mio padre
metterò il grembiule
e imparerò a volare
e scriverò poesie d’amore soltanto per mia madre.
(Le quattro volte, Brunori Sas)

Volare, imparare a volare.
In un alto che solo quando vedi realizzi che esiste e che fino a quel momento hai guardato troppo in basso, o troppo poco in alto: ma c’è l’oltre.

Non parlo dell’oltre cui ambire, ma dell’alto cui arrivare per poi su altro planare.

Non un volo della “Gabbianella e il gatto”, ma qui penserei al gabbiano di Jonathan Livingston, quello che ci insegna che volare è vivere.

Liberiamoci dai confini delle cose sciocche, impariamo a stabilirli noi: prendiamo un pennarello nero e stabiliamo il limite, come negli album di quando si era bambini, di quando la maestra ti insegnava a colorare rimanendo nei bordi. Lì si era piccoli, ma ora siamo noi a decidere fino a che punto colorare, e fino a che punto lasciarci sedurre dai colori che già ci sono.

Vale la pena alzare il capo, guardare questo grattacielo più in alto delle nuvole, chiudere gli occhi, riguardarlo e immaginarlo a colori, che per me sono blu petrolio e verde pavone nell’ultima domenica di settembre.

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(Solo un grattacielo; Futian District, Shz).

Il porto sicuro della volontà.

Solo nell’istante appena successivo alla pubblicazione del post precedente (“Finestra è..”) mi è venuto in mente che è sotto questo titolo che si apre il romanzo di Virginia Woolf “Gita al faro”, indiscutibile capolavoro del genio suicida.
Nondimeno, è solo oggi che mi viene in mente di dare un senso a questo collegamento mentale, di cui mi compiaccio, con la foto di un faro.

dsc00391(Grand Harbour, La Valletta, Malta)

Un faro che, quando è stato immortalato, mi ha ricordato una parte della famiglia Ramsay: James e i suoi genitori, la Signora e il Signor Ramsay. Tre soggetti distinti e in grado – anche senza gli altri sette componenti della prole – di raffigurare perfettamente lati dell’essere umano.
Probabilmente, nella mia vita, ho visto anche altri fari, ma questo è il primo per cui ho pensato: James voleva fare qui la sua gita.

Che limiti incontra la volontà? Come si distingue la volontà dal desiderio o sono forse la stessa cosa?
Potrebbe dirsi, intuitivamente, che la volontà raggiunge la sua intensità massima nel desiderio, qualunque sia la forma di quest’ultimo: brama, ambizione, voluttà.
Questo perché si desidera quel che fortemente si vuole.
Dunque, il desiderio – così voluto – dovrebbe esigere la spendita di ogni capacità ed energia per realizzarlo; il desiderio richiamerebbe dunque il “potere” e lo farcirebbe di gusto per farlo diventare “dovere”.
Io devo avere quello, perché lo voglio; anche se non posso, lo voglio, allora devo.

Fantastica illusione, vana.
Al contrario io penso che il desiderio, per come funziona l’essere umano, sia perfetto compagno della rassegnazione; il desiderio è la stessa limitazione della volontà, se aderiamo alla costruzione per cui il volere lo si parametra mentalmente alle proprie capacità, e che dunque il volere-base (distinto da volere-desiderio, che è climax) consenta l’estrinsecazione del potere con conseguente elevata probabilità di successo.

In poche e altre parole, si vuole quando si può; si desidera quando non si può. Allora stiamo attenti a non confondere desiderio e volontà, anche se – per miopia linguistica – utilizziamo, per entrambi, il verbo volere.

Nell’incipit de “Gita al faro”, questo è molto chiaro: su un piano soggettivo, James vuole andare al faro. Sa che è una gita che si può fare, si prende la barca e dall’Isola di Skye e ci si arriva. Sul piano oggettivo, la sua volontà diventa desiderio un paio di righe dopo, quando il padre, Signor Ramsay, gli dice che ci sarà brutto tempo e che la gita non s’ha da fare.
La tramutazione della volontà in desiderio è testimoniata dal fatto che James, nel proseguo della narrazione, chiede nuovamente quando si andrà al faro.
Il desiderio ha in sé la componente negativa del mancato raggiungimento; desiderio è anelito, è protendersi verso qualcosa con la coscienza emotiva di raggiungerlo ma con la volontà di poterlo raggiungere. Desiderio è dissidio, è sentirsi funamboli nella corda delle proprie scelte; burattini nel fare i conti con qualcosa che non dipende da noi e che può anche non avere nulla a che fare con la realizzazione dell’oggetto del desiderio, come, in questo caso, il brutto tempo.

James va al faro, guida lui la barca per arrivarci; ma poi, il desiderio ritorna a volontà e, una volta giunti, si riduce a potere e riuscire.

James non è contento perché è arrivato al faro, ma perché il padre – che gli aveva detto sempre no, a causa del cattivo meteo – lo elogia per come ha timonato la barca.
E allora non tormentiamoci per i nostri desideri, perché sono fugaci, perché possono lasciare spazio a gioie più grandi. Diamo più valore alla volontà, a quel che possiamo e compiacciamoci di essere riusciti, senza dirci che era semplice, facile e che “chiunque ce l’avrebbe fatta”.

Il vero traguardo sarà aver dato spazio alla volontà per come poteva essere senza doparla per farla diventare desiderio. Se abbiamo un desiderio, chiamiamolo e trattiamolo da sogno e teniamolo lì: nel cuore, nella mente o in un cassetto, dal quale tirarlo fuori quando avremo la forza di vestirlo da volontà.

 

 

 

 

 

Finestra è…

curiosità;
il desiderio di suscitare curiosità;
timidezza;
paura;
riserbo;
apertura;
ordine;
disordine;
precisione;
caos;
buio;
luce;
ombra;
segreto;
speranza;
buongiorno;
buonanotte.

 

La finestra è tra quelle cose che raccontano molto delle persone; io, guardando le finestre – che siano di un museo, di una casa, di un palazzo non identificato, di un scuola, di un luogo disabitato – faccio un gioco. Immaginare la vita di chi è dentro, indovinandola attraverso la sua finestra.

So che, probabilmente, ogni appartamento ha più di una finestra e, magari, sullo stesso versante d’affaccio due finestre appartengono alla stessa persona, ovvero a più persone, se maggiori sono gli inquilini di un appartamento o di una casa: ma non importa, perché per me a ogni finestra (non anonima, intendesi) corrisponde una persona, che ne è proprietaria..o viceversa. Importante precisazione è che le finestre, per me, non hanno tapparelle.

E mi immagino chi, in una domenica pur soleggiata e promettente, nel tepore settembrino, decide di essere pigro; tale sarà anche la sua finestra. Un risveglio lento, l’alzarsi scalzo e lasciare socchiusa la persiana, così che entri solo un filo di luce. Quel filo che proietta una nitida linea sul lenzuolo, in cui rimanere adagiati senza far alcunché, senza che nemmeno tutta la luce che c’è fuori possa rendere coscienti di quel che succede all’esterno, del fatto che il sole è forte e le persone andranno al mare, che i turisti imperterriti continueranno a fare file sfiancanti con crema solare ben applicata, che i bambini andranno al parco e strizzeranno gli occhi cercando di vedere dove è finita la palla con cui stanno giocando.

E mi immagino chi compra ogni giorno, od ogni due giorni, dei fiori freschi da mettere in un bel vaso, posato sul davanzale affinché chi passa lo ammiri. A seconda dei casi vi poggerà, accanto, una tazza da tè e un libro, a far capire che ogni tanto anche lui/lei si mette seduto, accanto alla finestra, per vedere quel che accade al di là; ma al di fuori di quei momenti, la sua vita è e rimane sua, personale e riservata, immaginabile solo dal fiore, che un giorno è una rosa, un altro un tulipano. Un giorno sfiorito, un giorno ancora con boccioli chiusi.

La finestra cui ci si affaccia in preda a paturnie, come Holly Golightley in “Colazione da Tiffany”; quella che di notte si controlla sia chiusa bene in inverno, che si è in dubbio di chiudere o socchiudere quando inizia il fresco di fine estate, quella che si lascia spalancata nel torrido agosto. Quella finestra aperta perché “così cambia l’aria”, “si crea corrente”; chiusa “perché ora mi devo cambiare”, “perché entrano le zanzare”.

La finestra è l’IO più vero, quello che c’è e ti dà sicurezza, con cui convivi senza averne coscienza; è il LUI/LEI nella mente e negli occhi degli estranei che ci passano davanti, o la fissano con gli occhi in alto, dimenticando che anche loro, che ognuno di noi, ha la sua finestra.

 

 

 

 

Aspettando tempi migliori.

E’ che di tempo pensiamo di averne troppo, e così lo dissipiamo; quando il tempo ci sembra morto, non è una tragedia bensì LA tragedia.

Io credo che la vera tragedia sia non tanto il perdere tempo, né il non sapere come riempire il tempo, nemmeno il trascorrerlo nel modo sbagliato – perché poi, in fin dei conti, non esiste un ché di giusto o di sbagliato – quanto piuttosto il perdere l’attimo. Non una tragedia in sé, ma la nostra tragedia: capro espiatorio di innumerevoli errori, spiegazione razionale di molte sventure e banale arresa alla caducità del tempo. Bah, come se il tempo fosse nostro, poi.

In una soleggiata domenica di agosto – quando volevo impiegare il tempo o forse perderlo in maniera costruttiva – ho visto queste due teste lignee, effigi di sguardi contrapposti: c’è stato un contrattempo, per via (non a causa) del quale un istante (ci) è (s)fuggito: quell’istante in cui i due sguardi si sarebbero potuti incrociare e invece hanno svoltato, si sono voltati, prima. O forse in quell’istante si sono incrociati ma qualcosa si è frapposto.

E non è andata come si voleva.

Non è andata come poteva andare.

E’ andata come doveva andare. E non ci sia colpa, rimorso, tragedia, rimpianto, perché ciascuno è padrone di se stesso ma non del tempo, che è di tutti. Per questo deve fuggire e non può appartenere ad alcuno: chissà che uso ne farebbe.

Tale è la sua vendetta: farsi piccolo e fuggire.

C’è chi l’ha chiamato attimo fuggente. Io preferisco contrattempo, contro (il) tempo.

 

DSC00318Daniela De Lorenzo, “Contrattempi”, 2014 – Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

Ma l’amore, Mimì, l’amore è n’atra cosa!

“Ieri, oggi e domani”, Oscar come miglior film; correva l’anno 1965. Dopo Napoli e Milano, la pellicola si chiude con Roma, in un attico che affaccia su Piazza Navona.

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Una piazza che – come la sua ‘inquilina’, Mara – si presta.
A tutti.
[ Ma l’amore, Mimì, l’amore è n’atra cosa! ]
Per la sua capacità di custodire segni di storia, essere palcoscenico di capolavori del cinema, fino a essere un po’ mainstream con il balcone fiorito, destinato comunque a soccombere in un ipotetico certamen con l’edera del Rione Monti.

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Scultori, registi, attori, mercanti, fotografi hanno avuto, tutti, un po’ da questa Piazza.

E anche se, chi abita a Roma, l’ha vista e rivista e non ne può più – perché poi, ormai, “è piena di turisti”, “c’è un caos”, “naaah, ormai è rovinata”, “al massimo per l’Epifania” – di quando in quando ci torna, e la guarda. Senza parlare di niente e di nessuno di quelli che ci sono stati e l’hanno, variamente, arricchita o vissuta.

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Il ché, in fin dei conti, vuol dire che siamo ancora capaci di considerare nostro – intimamente, nostro – quel che non possediamo ma che ci possiede; ieri, oggi e domani sparsi in chissà quanto tempo di vita.

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