Solo nell’istante appena successivo alla pubblicazione del post precedente (“Finestra è..”) mi è venuto in mente che è sotto questo titolo che si apre il romanzo di Virginia Woolf “Gita al faro”, indiscutibile capolavoro del genio suicida.
Nondimeno, è solo oggi che mi viene in mente di dare un senso a questo collegamento mentale, di cui mi compiaccio, con la foto di un faro.
(Grand Harbour, La Valletta, Malta)
Un faro che, quando è stato immortalato, mi ha ricordato una parte della famiglia Ramsay: James e i suoi genitori, la Signora e il Signor Ramsay. Tre soggetti distinti e in grado – anche senza gli altri sette componenti della prole – di raffigurare perfettamente lati dell’essere umano.
Probabilmente, nella mia vita, ho visto anche altri fari, ma questo è il primo per cui ho pensato: James voleva fare qui la sua gita.
Che limiti incontra la volontà? Come si distingue la volontà dal desiderio o sono forse la stessa cosa?
Potrebbe dirsi, intuitivamente, che la volontà raggiunge la sua intensità massima nel desiderio, qualunque sia la forma di quest’ultimo: brama, ambizione, voluttà.
Questo perché si desidera quel che fortemente si vuole.
Dunque, il desiderio – così voluto – dovrebbe esigere la spendita di ogni capacità ed energia per realizzarlo; il desiderio richiamerebbe dunque il “potere” e lo farcirebbe di gusto per farlo diventare “dovere”.
Io devo avere quello, perché lo voglio; anche se non posso, lo voglio, allora devo.
Fantastica illusione, vana.
Al contrario io penso che il desiderio, per come funziona l’essere umano, sia perfetto compagno della rassegnazione; il desiderio è la stessa limitazione della volontà, se aderiamo alla costruzione per cui il volere lo si parametra mentalmente alle proprie capacità, e che dunque il volere-base (distinto da volere-desiderio, che è climax) consenta l’estrinsecazione del potere con conseguente elevata probabilità di successo.
In poche e altre parole, si vuole quando si può; si desidera quando non si può. Allora stiamo attenti a non confondere desiderio e volontà, anche se – per miopia linguistica – utilizziamo, per entrambi, il verbo volere.
Nell’incipit de “Gita al faro”, questo è molto chiaro: su un piano soggettivo, James vuole andare al faro. Sa che è una gita che si può fare, si prende la barca e dall’Isola di Skye e ci si arriva. Sul piano oggettivo, la sua volontà diventa desiderio un paio di righe dopo, quando il padre, Signor Ramsay, gli dice che ci sarà brutto tempo e che la gita non s’ha da fare.
La tramutazione della volontà in desiderio è testimoniata dal fatto che James, nel proseguo della narrazione, chiede nuovamente quando si andrà al faro.
Il desiderio ha in sé la componente negativa del mancato raggiungimento; desiderio è anelito, è protendersi verso qualcosa con la coscienza emotiva di raggiungerlo ma con la volontà di poterlo raggiungere. Desiderio è dissidio, è sentirsi funamboli nella corda delle proprie scelte; burattini nel fare i conti con qualcosa che non dipende da noi e che può anche non avere nulla a che fare con la realizzazione dell’oggetto del desiderio, come, in questo caso, il brutto tempo.
James va al faro, guida lui la barca per arrivarci; ma poi, il desiderio ritorna a volontà e, una volta giunti, si riduce a potere e riuscire.
James non è contento perché è arrivato al faro, ma perché il padre – che gli aveva detto sempre no, a causa del cattivo meteo – lo elogia per come ha timonato la barca.
E allora non tormentiamoci per i nostri desideri, perché sono fugaci, perché possono lasciare spazio a gioie più grandi. Diamo più valore alla volontà, a quel che possiamo e compiacciamoci di essere riusciti, senza dirci che era semplice, facile e che “chiunque ce l’avrebbe fatta”.
Il vero traguardo sarà aver dato spazio alla volontà per come poteva essere senza doparla per farla diventare desiderio. Se abbiamo un desiderio, chiamiamolo e trattiamolo da sogno e teniamolo lì: nel cuore, nella mente o in un cassetto, dal quale tirarlo fuori quando avremo la forza di vestirlo da volontà.