Radici e fate ignoranti.

 

 

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Le radici, sono quelle da cui cresci, che ti tengono ancorato al suolo, ricordandoti che il tronco e i rami e i fiori possono nascere, crescere e risbocciare e che i passerotti che si posano e i pettirossi che fanno il nido possono addirittura volare, ma tu, che sei natura e vita, rimani lì.

Le radici sono quelle che se si girano a destra o sinistra o fuoriescono da terra, in realtà, non ti lasciano mai: se la radice si sradica, così farà l’albero e gli uccelli migreranno.

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Le radici sono quello che sei e tu sei quello che sono loro: le radici sono il sangue che scorre, nel bene e nel male, sono la linfa che dà vita. E le radici sono preziose, sono le fate ignoranti che hanno la pazienza di aspettare il tuo ritorno quando vai via.

Ma si crede di andare via, perché, in realtà, se tu sei lì, ci sono anche le radici e né l’uno né l’altro elemento può andare via se non insieme.

 

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Sensi di vuoto che acquistano una ragione.

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Tornare a riprendere, me; a rispondere, a me.
Tornare a soffrire o a stupirmi: a riscoprire l’inizio dalla fine.

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Cara Cina, come ti ho scritto un po’ di post fa, tu mi hai fatto capire quel che volevo, avrei voluto e non vorrei; ora gradirei parlarne, perché tu custodisci

in mezzo a quell’aria che si produce con l’olio di sesamo in cui sfrigola il riso,
tra il rumore delle bacchette sulla ceramica delle ciotole,
nel suono di 100 cinesi che bevono la zuppa di miso,
tra i visi nascosti da mille smartphone,
nel caldo afoso senza che il sole si veda,
nel caos di chi corre, cammina o pedala,

nella noia,
nella mia incapacità di sfruttarla,
nella solitudine tra miliardi di persone,
nella scrittura con flussi di coscienza,
nella riproduzione di Spotify che era casuale ma nemmeno troppo,
nel caos,
nella calma troppo piatta,
nello stupore,

una parte di me, quella che non riesce a fare la spesa perché non capisce e non sa, quella che sbuffa ma si stupisce, quella che va in giro da sola per la città, quella che legge e non vuole guardare l’orologio perché ha paura di smettere, quella che sente le mancanze, quella che realizza che certe persone sono pilastri e altri passeggeri, che le prime vanno preservate, le seconde accompagnate all’uscita; tutto questo me lo hai, umanamente, magari con rimorsi, o con sicurezza e aggressività, e a volte con qualche lacrima o tante risate.
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Tenuta prigioniera, mi hai liberato quando con le lacrime, ho capito che il dolore è andato via dal cuore e che per la mente, servono tante risate sbiancanti, come il riso puro che mi hai insegnato ad apprezzare.

Ora che sai di avere questa parte di me, se non dovessi tornare a ricongiungermene, custodiscila: ma non in una teca. Portami in giro, fammi sognare.

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Fa ciock.

 

Gli angeli esistono e sono quelle voci che, d’un tratto, ti esortano a fare quello che ami fare, a ritrovarti.

Spesso ci perdiamo nel frastuono della bieca quotidianità, negli automatismi cui siamo talmente abituati da non ragionare più su quel che ci fanno perdere, su quel che facciamo senza volerlo fare, su quel che potremmo fare senza saperlo.

 

Le finestre, quelle che mi piace tanto osservare: scovarne alcune che sono un’orchestra perfetta, altre che sono così diverse, nella loro essere apparentemente uguali, e a cui quando scatti stai dicendo: siete bellissime.

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Fare caso a vecchi sportelli arrugginiti entro i quali, un tempo, passavano i cavi della corrente, che si dovevano nascondere perché erano antiestetici e si viveva convinti che la bellezza avrebbe salvato il mondo; quando poi, quel mondo, lo abbiamo sporcato con immondizia che contorna alcune strade.

 

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Ma non fa niente, perché rimangono magiche; anche quelle con i panni stesi, che non sono bei panni, non sono tovaglie di lino, ma il bucato che racconta di una famiglia che la domenica si prende cura di sé.

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Vedere il tepore proprio di un paesino, nel cuore della Capitale.

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Sorridere della fila fuori dal panificio Boccione, cui la curiosità ti spinge ad entrare, a curiosare, a respirare odori che sanno di casa, di buono e di impasti rimasti attaccati ai recipienti, a comprare, a sentire chi ti saluta con Shalom.

DSC00670.jpgRicevere un pandoro o dei biscotti natalizi, perché è Natale. Anche prima che inizi dicembre, può essere già Natale: questo indica la nascita, la rinascita, di cui spesso si ha la necessità anche se non la si avverte.

Ci sono momenti che non sai perché sono quelli e non altri, in cui smetti di sfogliare il libro di foto di Doisneau o Les Nijinsky ed esci fuori, perché se vuoi un posto nel mondo, le foto le devi fare tu: frammenti di vita, furti di esistenza che ti spettano. Anche a costo di lasciare che ti feriscano, o di mettere sul bancone tutto quello che hai, perché puoi vincere o puoi perdere, ma quella è la vita, non è il destino. Il destino è la vigliaccheria del non darsi spiegazioni, del tacere quando si ha da parlare.

Ieri pomeriggio, da Piazza delle Cinque Lune a Via del Portico d’Ottavia e al contrario nel ritorno, ho detto: Caro destino, ti sbagli, ci sono sogni più grandi e ambizioni più alte ed emozioni più forti di ciò che mi vorresti far credere, e Natale esiste anche il 27 novembre; me ne ero soltanto dimenticata.

 

Nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili.

dsc00602(Praga, Malastrana).

Viviamo nell’incapacità di scrollarci di dosso quel che è crollato, quel che ci ha tagliato la pelle lasciando abrasioni senza, tuttavia, andare via.
Siamo traiettoria di gesti, parole, silenzi, speranze e illusioni, rispetto ai quali tutti non riusciamo a fare opera di discernimento, stabilendo quel che può rimanere sulla via che siamo e quel che non deve avere più spazio.

C’era un tetto a Praga, sotto la mia finestra, che dava su un bel viale alberato, colorato di foglie gialle e arancio e disseminato di panchine bianche. Quello che mi ha colpito, però, è stato il coro di tegole arrivate a incastrarsi sotto la grondaia, in un’architettura scomposta, disordinata ma, al contempo, perfetta.
E, così, ho guardato da dove fossero cadute, dove fossero gli spazi (ora vuoti) in cui prima erano adagiate.
Non c’erano; tutte le caselline di questo tetto erano coperte. E loro stavano lì.

Mi sono sembrate sole. E ho pensato che, effettivamente, se nessuno si era preso la briga di sporgersi, afferrarle e ri-piazzarle da dove si erano scostate, scollate e cadute, non sarebbe potuto essere diversamente. Insomma, senza l’altrui gesto, non si sarebbero mai potute riprendere il loro posto: e quindi eccole lì, in bilico, fragili. Non essenziali, ma un in più.

Gli esseri umani non sono tegole, però. Succede che quel che si scosta dalla vita di un altro, quello che violentemente se ne va, non richiede sempre e solo di essere ri-afferrato e riposizionato lì dove era. Perché questo è violenza. La stessa violenza che, però, diventa necessaria quando quel che è crollato va tirato via, per lasciare spazio ad altro, a sassolini che se tiro giù dal tetto devono potersi incastrare nel tubo della grondaia e fare ‘clonk‘, senza essere ostacolati da queste tegole.

Non so che ne farei di queste tegole. Forse nulla, ma non riuscirei a buttarle; al più, ad abbandonarle.
In un film di Virzì (“La pazza gioia”), alla domanda “Ma dove sta la felicità?“, si risponde “Nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili“.
Così, se oggi mi chiedessero “Ma dove sta la tristezza?”, risponderei: “Nelle tegole in più su un tetto riempito”.

 

Arte – fatto?

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Si vive, non in maniera infrequente, con la convinzione che l’arte non esista e che la si debba creare, con un qualcosa in più rispetto a quello che normalmente c’è  (gia) e così si diventa artefatti.

Purtroppo non c’è una cura ma i sintomi sono molto chiari; a dire il vero, spesso avviene anche per contagio.

Il primo sintomo è il sentirsi inadatto, che è cosa ben diversa dal disadattato; vorrei citare Cugia per spiegare cosa sia il disadattato o per rispettare una gerarchia temporale dovrei citare Sciascia ma non lo farò e dirò quella che è la differenza per me. Il disadattato è colui che un tempo e per un certo tempo è stato e si è sentito non adatto a un qualcosa o a un qualcuno: il disadattato è intelligente perche la sua condizione è il frutto di una scelta e di una convinzione, quella di dire che quel qualcuno o quel qualcosa non gli appartiene,  non ci si sente e, così, se ne va col fagotto di Calimero. Si, va via col fagotto perché li dentro c è quello che quel qualcosa o quel qualcuno gli hanno lasciato e che gli servita lungo la via dell’abbandono e nelle lande lontane. Il disadattato non rinnega e non dimentica, mai. L’inadatto invece è altro ed è una brutta storia: è colui che prima ancora di conoscere e sperimentare qualcosa o qualcuno sa o meglio assiomizza, sulla base di proprie convinzioni prive di riscontro, che a quel qualcosa o a quel qualcuno non è adatto. L’inadatto nasce così non ha una sensazione del ripudio di cui è convinto; l’inadatto è il vigliacco per l’eccellenza ed è destinato alla ignoranza. Il disadattato cresce, l’inadatto, al 99% dei casi, si pente.

Dicevo, il considerarsi inadatti è un sintomo dell’essere e del vivere artefatti. Perché si escludono dalla vita una serie indefinita e potenzialmente infinita di elementi, che – come tutto nel mondo – sono arte e che quindi si è costretti a creare, con finzione.

L’artefazione è quella brutta storia che ti fa studiare davanti allo specchio il discorso da fare alla persona giusta per te – che in precedenza è stata scrutinata e valutata più attentamente di come si viviseziona l’ultimo esemplare di animale rimasto sulla terra – o che ti fa pensare più ai contro che ai pro di ogni cosa, questo perché il pro ha una forma d arte potenziale che non sai riconoscere mentre il contro, beh, basta e avanza. Così si è artfatti quando in treno non si coglie la preziosità di poter essere ladri di sguardi, tradizioni, costumi, risate.

Semplice così dirvi che l’altro sintomo è la paura; ma non ve lo spiego, perché può facilmente comprendersi.

L’artefatto per me è Dorian Gray, il disadattato? Rosso Malpelo.

Ho pensato di scrivere oggi queste cose perché oggi è Halloween e gli artefatti potranno essere in ottima compagnia.

 

Tra il dire e il fare.

Tra il dire e il fare, che c’è di mezzo?
Il parlare, abisso che separa il dire e il fare, ovvero quello che – se manca – crea il problema o i problemi.

Esempi.
Mi trovavo in Cina, dovevo comprare il biglietto del treno che da Shenzhen mi avrebbe portato a Guangzhou. Primo tentativo è, ovviamente, quello online: sito, cerca sulla destra in alto il magico e fantastico loghetto con la bandiera del Regno Unito, clicca e uh, respiro di sollievo. Vai, inserisci nel motore di ricerca a sinistra partenza destinazione orario data, bidibi badaban, PROSEGUI E PAGA: e invece no, niente, sono l’unico sito cinese che accetta solo Pay Pal e la tua carta aziendale non ce l’ha. E il sito sembra dirti STACCE.
Quello stacce ti porta, allora, a sviluppare un certo senso di competizione e allora pensi che segnerai il codice del treno e l’orario su un foglio con il quale, impavida e spavalda, ti dirigerai alla stazione di partenza, con l’anticipo delle 24 ore prima, e comprerai il biglietto.

Niente di più semplice, scodinzolo allegramente per il corridoio e vado verso l’ascensore che dal piano 22 mi porterà al piano -1, cioè direttamente dentro la stazione: che lo si dice a fare, c’è chi può e chi non può. Ma anche no, o meglio, io non può e non ho potuto. Si apre l’ascensore al -1, con le mie orecchie ancora tappate che nemmeno dopo un atterraggio stile Ryanair (cui segue applauso, ndr), e vedo il nulla. Pavimento da clinica geriatrica sfondo grigio e puntini dal nero al rosso sangue sbiadito, pareti grigie e telecamere. Ma va bene, bidibi badaban arrivo a un punto popolato dal quale, seguendo l’icona del treno, riesco ad approdare a un banchetto con vetro e foro microfonato che ha tutta l’aria di sembrare un punto di acquisti o di informazioni. Quella prima di me, estraendo un porta qualcosa super colorato e con funghetti che sorridono disegnati, lo apre e ritraendo la mano dalle fessure dello sportello vetrato vi inserisce il biglietto.
Ok, è qui che comprerò il mio biglietto.
Provo con un Hello, ma sidhfisduhfisduhfisuhfisduhfishfiusdhfd è quel che mi si risponde; non parla inglese. Ma fa nulla, perché io ho scritto codice e orario quindi le allungo il post it e idhishdfisuhdifuhsf isudhfisudhih uh fhf s v e f g.
NADA.

E’ inutile: se non parli, non ce la puoi fare.

Ma quanti sogni si sono infranti perché nessuno ha parlato e ha preferito agognare e sognare il fare sulla base del suo dire, che poi, era solo vedere.
Mi spiego.
Tu, giuovine aitante che ancora crede nelle ore 22 del sabato sera, quando non sei con i tuoi amici a mangiare, ma sei a casa, a laccare il capello perché è quella laccata delle ore 22, unitamente alla barba fatta poco prima o dopo, e a quel litrozzo di CKOne che ti darà il potere. Il potere di attrarre, di rimorchiare a partire dalle 00.00, in cui sei pronto, in tutta la tua lucidità, a uscire.
Ecco, tu giuovine lucido e lucidato, tu che sei convinto che nessuna possa resisterti, vedi una che sembra muoversi per spostamento dell’alcool da un estremo all’altro, come in una bella e sinuosa bottiglia di San Pellegrino, bella avvitata. Cosa pensi? Che, beh, non ti potrebbe resistere comunque, che quindi ce la farai e che non solo ce la farai in quell’esatto istante successivo a quando le posizioni la mano sul fianco e #maciao, ma anche dopo, al di fuori del locale, quando le scriverai e uscirete e poi #fuochiefiamme perchè se è ubriaca allora è anche disponibile.
Parla, giuovine lucido e laccato, parlale; perché, davvero, potrebbe non essere così, perché proprio che tu che vedi negli altri il tuo oggetto, potresti diventare l’altrui oggetto. Perchè non parli.

Questo non è un manifesto della parola, ma solo una parentesi divertente che contribuisce a rafforzare le mie convinzioni sull’aver fatto un’ottima cosa quando per la maturità scelsi di fare la tesi(na) sulla Parola.

Perché è importante.

Perché anche io a volte ne ho fatto meno.

Perché ogni volta che ne ho fatto a meno me ne sono pentita e non me ne è importato più niente.

Perché io non ci posso fare niente e sono fatta cosi: Paola parla. Toglietemi la O datemi la R, e fate quel che volete.dsc00306

(Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma)

Saremo come gli aironi che abitano vicino al campo nomadi.

Viaggiare è sempre stata la mia grande passione, il mio grande desiderio e il mio tutto. Viaggio con la mente, con il cuore e con il corpo.
Alcuni viaggi mi hanno cambiato, altri sono stati un bel passatempo; altri ancora una avventura, altri una prova di coraggio e, per carità, alcuni anche una delusione.

La Cina non è niente di tutto ciò: la Cina è quello che vuoi, quello che vorresti e quello che non vuoi in un colpo solo.

(Obbligatorio l’ascolto) Le luci della centrale elettrica – “Quando tornerai dall’estero”.
le cravatte blu
il tuo fuoco amico
l’eyeliner per andare in guerra
nell’estrema sinistra della galassia, dove per l’umidità del garage
la nostra anima che ansimava era per un’occupazione temporanea,
era una gara di resistenza

 

partigiano portami via
saremo come dei dirigibili
nei tuoi temporali inconsolabili
dammi 50 centesimi
dammi 50 centesimi
non mi ero accorto che i tuoi orecchini per i riflessi
lanciavano dei piccoli lampi
non avevo capito la direzione dei tuoi sguardi
che siamo donne, siamo donne oltre il burqa e le gonne
metteremo dei letti dappertutto, dei materassi sporchi volanti
si sparse dovunque l’odore dei disinfettanti
saremo come gli aironi che abitano vicino al campo nomadi
andremo ancora a letto vestiti
come ai tempi dei primi freddi e degli elenchi telefonici sui reni
delle scintille che facevi ti diranno che sei poco produttiva
proprio adesso che l’America è vicina
è come andare sulla luna in Fiat Uno
è come lavorare in Cina
ma sei sempre il sole che scende in un ufficio pubblico
per appenderci un altro crocifisso
e di sera nelle zone artigianali
per tradirsi e
per brillare come le mine e le stelle polari
e sempre come un amuleto tengo i tuoi occhi nella tasca interna del giubbotto
e tu tornerai dall’estero, forse tornerai dall’estero
e tu tornerai dall’estero, forse tornerai dall’estero
adesso che quando ci parliamo i nostri aliti fanno delle nuvole
che fanno piovere
adesso che quando ci parliamo i nostri aliti fanno delle nuvole
che fanno piovere
adesso che quando ci parliamo i nostri aliti fanno delle nuvole
che fanno piovere

 

 

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(Ehi)What’syourname?

 

Se mi capitassero solo flash del genere, mi basterebbe riguardare le foto per capire il senso dell’esistenza.

E mi rendo conto che si perde tempo a farlo, e che è meglio vivere senza preoccuparsi troppo di capire, perché tanto è inutile. Farsi domande, una gran perdita di tempo.
Guardare foto, si ma se è per gossip, altrimenti si ritiene che queste siano riservate all’occhio ‘di chi ne capisce’. Un po’ come i quadri, i concerti: spesso ‘non si è tipi’.
L’arte, l’ultima delle preoccupazioni.
La lettura, se c’è tempo.
Il cinema, quello vero, se capita.

Io mi sono sempre fatta domande; non sempre ho trovato le risposte.
Ho sempre ritenuto che non farsi domande equivalga a fare la scelta consapevole di essere ignoranti, scegliere di ignorare. Ma ignorare è una cosa da vigliacchi, è come quel sorriso che fai mentre mandi il tuo interlocutore al diavolo, è come non dire ma far capire (un insulto alla propria intelligenza), come parlare senza guardare.
Per questo, ho sempre fatto tante domande, a me e agli altri.

C’è chi ha risposto come i signori nella prima foto, e come quelli nella seconda. Ma attenzione, la prima foto non ha come risposta la sua negazione, ovvero il tacere; ma ha qualcosa di tanto più prezioso, un dono. Il mare.

Il mare era la sua risposta, quando ha visto la nostalgia negli occhi della moglie; il mare era anche la risposta di quest’ultima, al desiderio non espresso del marito di prendere il sole.

“Diffidate dei consigli, di tutte le ricette di vita, di chi vi vuole redimere e di chi vuole portarvi sulla sua strada, buona o cattiva che sia. E’ tutta gente che sta peggio di voi, ma, curandovi, s’illude di stare meglio. Se siete soli, stanotte, prima di infilarvi sotto le pezze,mettetevi in piedi nella vostra stanza, in un angolo, e fissate il muro. Al di là dell’oceano io farò lo stesso. Un uomo solo che guarda un muro è un uomo solo. Ma due uomini che guardano il muro è il principio di un’evasione” (Jack Folla, Alcatraz)

Due che guardano il mare, è principio di magia; due che si guardano negli occhi, alchimia.
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Riflettendo per riflettersi

Non innamorarti di una donna che legge,

di una donna che sente troppo,

di una donna che scrive…

Non innamorarti di una donna colta, maga, delirante, pazza.

Non innamorarti di una donna che pensa,

che sa di sapere e che inoltre è capace di volare,

di una donna che ha fede in se stessa.

Non innamorarti di una donna che ride

o piange,

che sa trasformare il suo spirito in carne e, ancor di più,

di una donna che ama la poesia (sono loro le più pericolose),

o di una donna capace di restare mezz’ora davanti a un quadro o che non sa vivere senza la musica.

Non innamorarti di una donna intensa, ludica,

lucida, ribelle, irriverente.

Che non ti capiti mai di innamorarti di una donna così.

Perché quando ti innamori di una donna del genere,

che rimanga con te oppure no, che ti ami o no,

da una donna così, non si torna indietro.

Mai.

(Martha Rivera Garrido, Non innamorarti di una donna che legge)

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Innamorati, invece, di quella parte di te che è così.

Innamorati del te stesso cui piace viaggiare, e non parlo solo del navigare su Skyscanner una a settimana e pianificare il pacchetto con il sorriso che compare al ‘pin’ dell’email di conferma che ti arriva con il summary del tuo viaggio, ma parlo anche e soprattutto del percorre mete restando fermi.

Di desiderare l’inverno d’estate, e la primavera quando fuori piove; di immaginarti in un paese tropicale, naufrago in un’isola che c’è o non c’è, ma che in quell’istante è tua: e tu sei lì, sei in grado di sentire il sapore dolce del latte di cocco che smorzi con un foglia di platano essicata quando magari, invece, sei seduto sul tuo divano senza niente davanti e la neve che batte alla finestra, dicendoti “continua”.

Innamorati del te stesso cui piace scattare foto senza alcuna ambizione, se non quella di intrappolare il tempo in un formato polaroid, iniziando a pregustare cosa scriverai in quello spazio bianco che c’è sotto, se scriverai qualcosa o se vorrai che, riguardandola più in là nel tempo, sia la tua mente a riportarti lì, dove e quando hai vissuto quello che ora è un quadrato su carta fotografica.

Innamorati di quella parte di te che non capisci, che detesti: innamoratene per levigarla, per renderla malleabile in un mondo in cui tutto c’è ma in cui sei tu a capire quel che merita o no. Innamorati del tempo perso a contare quante foglie color amaranto sono cadute davanti alla panchina su cui eri seduto, del tempo perso a giocare dove mettere i piedi in un pavimento con mattonelle quadrate o esagonali, del tempo perso a riniziare a contarle perché non erano regolari e non ti consentivano una sequenza perfetta.

Perché la sequenza perfetta non c’è.

Perché ogni parte di te, di cui ti sarai innamorato, sfugge alla logica, al raziocinio ed è pura emozione. Sarebbe facile innamorarsi sulla base dei conti, del calcolo, della razionalità: mettere tutto a sistema, calcolare nel dettaglio ogni equazione per poi mettere la vita in un foglio excel. Sarebbe facile ma sarebbe atroce. Nell’esatto momento in cui lo fai, avrai rotto ogni imperfezione che esiste nella realtà, ogni dubbio che ti assale sul futuro, per sfuggirne.

Ma la fuga non è il viaggio, la fuga è l’immobilismo. E’ guardare la vita con questa posa scultorea, aspettando che quel che vogliamo prenda forma, mentre noi siamo fermi.

DSC00218.jpg(Rabarama, Corso Italia, Cortina d’Ampezzo)